Note sul re-incanto della natura e l’inappropriabilità della vita

o delle condizioni per il metamorphic sublime nell’animale che (forse) siamo

Si scrive dalla campagna, e per forza di cose questa riflessione sarà suscettibile di essere rivista, contestualizzata quando il ritorno ai testi sarà più facile. Nasce però nel mezzo, nel punto di incontro tra quelli che vorrebbero essere i concetti-titolo di questo testo, cioè tra il «re-incanto della natura», e l’evidenza percettiva «dell’in-appropriabilità della vita».

Il confino involontario a cui siamo costretti, ha portato molti, a dire il vero moltissimi, a riflettere (finalmente) sul rapporto degli umani con gli animali, alla luce di una parola, che racchiude un movimento, un contatto prima materiale e poi concettuale, che è la «zoonosi». La relazione dell’umano con gli animali – bisogna chiedersi se sia legittimo allargare la nozione di zoonosi alla più ampia sfera dei non-umani, ma forse così facendo si farebbe un torto alla sua sede scientifica – ha guadagnato la sua attenzione in primo luogo in virtù dell’identificazione dell’origine del CoVid-19 nei pangolini (noti solo a biologi e a Mary Douglas) seguiti a catena dai pipistrelli. Senza dilungarsi su questa che rischia indubbiamente di divenire nell’arena mediatica una mera puntualizzazione di stampo tecnico-scientifico, frutto del desiderio di non lasciarsi scappare l’opportunità di dar mostra di saper fare una corretta eziologia degli eventi, gli aspetti che invece abbiamo tenuto a cuore sono le consapevolezze che questa “scoperta” ha rafforzato. In primo luogo, la questione della biodiversità: il semplice assunto che i sistemi biodiversi siano più forti e meno soggetti a gravi manifestazioni patologiche è una convinzione che necessita poco di verifiche scientifiche. Si fa, invece, sensazione e percezione dell’ambiente, calibrata su un equilibrio che anche a volerlo afferrare con l’adeguata strumentazione scientifica, rasenta l’inafferrabile della materia, l’indescrivibile della complessità. 

Riflettere su queste cose mi ha fatto guardare alle galline con un occhio diverso, che cerco di allenare (senza apparenti difficoltà), quello del bambino. Ricordo che quando ci fu l’aviaria, mi divertivo a guardare torvo tutte le galline che mia zia e mia nonna allevavano, quasi le volessi far sentire colpevoli di essere così poco igieniche e in generale, insalubri. Pensando a quel gioco  un poco ingiusto per i poveri pennuti, ho sorriso e ho pensato a quanto non fosse affatto come credevo da bambino. Pensandoci meglio, però, non è tanto questo il punto su cui fermarsi, cioè il fatto che da adulto posso capire i sistemi complessi e le relazioni inter-specie, allocando le responsabilità meglio di un bambino. Piuttosto, da bambino ero convinto che le galline potessero capire di cosa le stessi accusando, e che potessero capire perfettamente il mio rimprovero fatto di inseguimenti e legni dimenati.

Il che mi ha portato a pensare alla banalità con la quale ho guardato alle galline per tutti questi anni, e più avanti, intorno ai 16 anni, quando mia zia ha iniziato saltuariamente ad assegnarmi l’infausto compito di pulire il pollaio da tutto il letame, il mio fastidio e la mia noia, più che rivolgersi alle galline, li rivolgevo a mia zia, datrice dell’infame lavoro. Insomma, le galline che pure erano le dirette responsabili tutte quelle defecazioni, io le avevo proprio scordate. Di tanto in tanto menzionavo le galline associandole alla stupidità, cosa, per altro, sulla quale non mi sono affatto ricreduto, trovandone nuove conferme ora, costretto ad accudirle quotidianamente da più di due settimane. Oppure, facendo sfoggio dell’immutabilità delle leggi della natura, a cui senz’altro la stupida gallina non avrebbe potuto sottrarsi mai, a nominarle era mio padre, per rispondere alle mie continue richieste di un motorino nuovo: “te lo compro quando piscia la gallina”. Ero già troppo grande per mettermi a guardare le galline aspettando che una di loro pisciasse. 

In questo modo, l’animalità della gallina ha fatto il suo ciclo, da potenziale interlocutrice infantile, a verificabile evidenza oggettiva del proverbio comune, ed è dunque precipitata nel luogo in cui l’animale sta: la bestialità. Una bestialità deficitaria e defecale.

Se, come alcuni propongono di fare, intendessimo allargare discorsi sull’animalità ai non-umani in genere, come depositari della nostra violenza oggettivante, sarebbe forse un passo troppo affrettato? È un discorso che porterebbe forse a considerare i micro-organismi, i batteri e i lieviti alla stregua di asini, cani, delfini e cigni. Nel nostro modo di costruire l’alterità, ivi compreso l’Altro che è in questo momento il virus, si richiede di certo di operare delle distinzioni, ma non è la distinzione tra un virus ed una gallina che qui mi interessa. È difficile infatti concepire una equivalenza dentro la storia culturale tra elementi che nominiamo e conosciamo da tempi radicalmente differenti. Vorrei indagare però il valore che assegniamo all’Altro, come possibilità del «Metamorfico Sublime», e capire perché tale valore è ciò che rende la vita dell’Altro inappropriabile. 

In questo senso, la distinzione tra virus e gallina sembra piuttosto superflua, se intendiamo con una tradizione antica (nella storia degli umani) ed al contempo recente, il rapporto come qualcosa di multiforme, che fa riferimento in ultima analisi al movimento che ci muove alla vita sensibile. La sensibilità, va infatti ricordato, è presupposto e condizione di qualsiasi valore, se è poi corretto ritenere che sia il valore il concetto adatto per spiegare perché la vita nella sua forma sofferente ed estranea rimane una fonte inesauribile quanto imprevedibile di sommovimenti. 

*

Ho ritenuto che il valore potesse essere un concetto in grado di sopportare l’indeterminatezza di molte delle osservazioni che mi presto a fare, cercando di unire l’Animalité animeé di Nancy con l’asino di Taussig, nonostante il valore stesso sia stato oggetto di ampi ed anche validi tentativi di catturarlo. Eppure, con Yan Thomas e Maurice Godelier, non possiamo che renderci conto dell’impossibilità per qualsiasi conoscenza di afferrare la parte rimanente, la parte che resiste alla reificazione. Un esempio molto valido e piuttosto sentito, è quello della monetizzazione, e dell’impossibilità di dare un prezzo alla cosa sacra, divieto che ha necessitato di molti secoli perché la forza del profitto potesse aggirarlo. Tuttavia, la parte resistente alla reificazione, seppure recedendo rispetto alle sue posizioni conquistate all’interno del diritto romano, non per questo è stata assorbita in toto dalla mercificazione e fatta oggetto di speculazione, nonostante gli aspri e audaci tentativi: “Ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard”.

Insomma, se alla base del capitale rimane un inafferrabile di fondo, è perché la politica della materia, così come quella della vita sensibile, resiste in qualche modo alle epistemologie predatorie. 

Tuttavia, questo è bene dirlo, ciò non vuol dire che questa inafferrabilità non sia stata adoperata a proprio favore dalle forze del profitto. Si potrebbe anche dire che la capacità di questa parte restante del valore di operare un cambiamento nelle persone sia di gran lunga superiore alla parte già appropriata dal capitalismo attraverso il calcolo ed il denaro, e che sia attraverso questa parte immaginifica che il feticismo delle merci possa aver potuto prendere piede in profondità. Il che significa semplicemente affermare che ci sia della magia dietro al feticismo, se il feticismo può così pericolosamente interagire non tanto con la materia, ma con la sua immagine inafferrabile (e che taluni capitalisti vorrebbero ritenere inesistente). A maggior ragione di questo rischio che corrono le nostre cose, i nostri beni, i beni pubblici, e i beni che sono di per sé, senza essere né nostri né pubblici, credo sia importante sottolineare ogni qual volta una parte resistente del valore non cada vittima del feticismo. È il caso, ad esempio, che non potrai comprare l’ultima zucca del contadino, se quella zucca è il frutto di una coltura che proviene da decenni, di una selezione familiare o locale introvabile, i cui semi il contadino vorrà piantare per l’anno che viene. E se quella zucca andrà marcita, la parte irrecuperabile del valore andrà distrutta per sempre, senza che niente si possa fare per salvare il tempo e la conoscenza che vi è dietro. Ecco, ritengo che il vuoto che si può creare a causa di una perdita impagabile ci avvicini all’animalità – per via dell’esperienza che la perdita ci costringe a fare dell’inappropriabile,  un evento non così distante dall’esperienza del lutto.

Non è quindi neanche questo un caso, cioè che il nostro avvicinamento agli animali per via della curiosità che ci fa guardare alla zoonosi e all’origine del CoVid-19, avvenga in un momento in cui siamo avvicinati all’irrimediabile, e all’impagabile, il lutto. Per via di assemblaggi forse ai più poco convincenti, sembra, un’esperienza di crisi, seppur minima per chi niente ha avuto a che fare fino ad ora con il virus, ma ben più alta per chi ha paura per i propri cari, accomuna la perdita/morte, l’animale e la parte inafferrabile del valore; e ci spinge a interessarci della vita sensibile. 

Nancy esplicita la relazione tra l’animalità e l’inappropriabilità della vita in conclusione del saggio sopra citato, ragione per la quale mi è venuto spontaneo interrogarmi sul perché Michael Taussig abbia assistito alla dissoluzione del proprio io ascoltando quello che per lui, rompendo imprevedibilmente la notte colombiana, era il suono di tutti suoni: il raglio dell’asino (per molti autori). E se fosse ancora necessario mostrare perché la memoria sensibile sia così importante a dare forma alle nostre vite, Taussig nota che non era la prima volta che sentiva la potenza di quel grido, tant’è che il suo ricordo lo portò in un’altra situazione. Era dove ben più che qui il valore inappropriabile della vita anima di spiriti invincibili la sensibilità delle persone, cioè in un mezzogiorno di fuoco a Ramallah, in Palestina. Le colline, racconta, erano squarciate dai boati potentissimi dei colpi dei cecchini israeliani e, non meno, dalla straziante eco del raglio dell’asino. 

Sembra infatti che il motivo per cui l’animalità ci riporta, con Nancy, all’inappropriabilità, ben si sposi con la figura dell’asino prescelta da Taussig per spiegare la ricerca che dovrebbe impegnarci verso la «mastery of the non-mastery». Se infatti per Nancy l’animalità è qualcosa come un concetto, distante senz’altro dalla materialità degli animali, inventato per riconoscerci in essi senza essere animali, come se l’animalità fosse il nostro ponte per percepire con la differenza senza annullarla, per Taussig l’asino diventa un modo di conoscere. Senz’altro, direbbe con Nancy che è un modo di “trasformare la loro sofferenza nella nostra”, o ancor meglio, la nostra sofferenza nella loro. 

È tra le due sofferenze, evidentemente, che si stringe un imprevedibile assemblaggio, se non fosse per un dettaglio che forse consente di identificare una ragione più politica alla base di questa scintilla. Per Nancy  questo riconoscimento umano dell’animale avviene “all’inseguimento di una vita inafferrabile”. Questo mi fa pensare al fatto che sia la testardaggine dell’asino, eminentemente politica per Taussig, a costituire la base resistente della mastery: l’inafferrabilità è in questo senso il pre-testo della non-mastery. È come se il fatto di poter essere non completamente afferrabili, soggiogabili, sia la condizione per poter riemergere con la forza dirompente di cui parla anche Erri de Luca: 

La bestia allungava il collo e con le sue corde tese e il morso in bocca lanciava il più lontano possibile la sua protesta di dolore. Sapessi io pregare così. Nella scrittura sacra si trovano molte notizie sull’asino, una bestia stimata, utile. Il suo grido invece è inutile, gigantesco, riguarda solo lui e Dio. L’uomo è escluso. Era maggio, avevo le orecchie piene di guerra, dei peggiori rumori. Il raglio attirò risposte da altri punti dei capi intorno e dentro la gobba mi sono passate le scosse dei brividi e d’improvviso mi trovo gli occhi inzuppati. Per tutta la guerra sono stati secchi e in una strada di campagna italiana si sono svegliati per rispondere alla chiamata degli asini. Quando uscirà la tua voce avrà la forza di quella dell’asino.

Questa stessa invocazione, promessa di forza che Erri de Luca lascia pronunciare a un contadino in attesa della fine della guerra, Nancy la ravvisa in uno Splendido Bagliore, espressione della vita inappropriabile, ma che Taussig articola ben più lungamente, con il concetto performativo di «Metamorphic Sublime». 

Per certi versi, il Metamorphic Sublime è implicato nella sua condizione necessaria dell’angoscia e per questa ragione, difficilmente potremmo situarlo al di fuori di un rapporto di forza impari. L’angoscia della guerra del contadino di Erri de Luca, l’agone del boato del San Paolo di Napoli, dove il contadino avrebbe risentito l’urlo dell’asino da migliaia di bocche umane una volta finita la guerra, e l’angoscia dell’oppressione israeliana o dei paramilitari colombiani dei luoghi visitati da Taussig, sembrano riconducibili a quel sentimento che per Nancy è animale per eccellenza, consustanziale per le bestie, al quale noi umani  aggiungiamo la “non comprensione della sua origine”. La mia idea è che in questa non-comprensione risieda una ragione eminentemente camuffata, nascosta, truccata, alla quale bisogna accedere per carpire un significato politico che ha incorporato l’angoscia entro la relazione tra uomo e animale.

La figura dell’urlo dell’asino, inteso come modo di conoscenza, sembra fare del Metamorphic Sublime una derivazione politica necessaria della relazione tra umano e animale, ma credo che questo concetto ci aiuti a capire un’angoscia che risiede in ogni relazione. 

Di Aladin Hussain Al Baraduni – artista resistente e rifugiato politico

Se “l’animale si angoscia in noi”, io penso che questo significhi l’invocazione di un richiamo – mimetico – di una struttura inconscia: la struttura impari della relazione uomo-animale. Sembra che lo squilibrio di potere che la produce ci conduca verso quella condizione che, senz’altro anche oggi di fronte al dramma della pandemia, così come sempre di fronte al dramma della violenza, rende gli umani vulnerabili. Questa vulnerabilità assediata dall’angoscia, per Nancy come per Taussig, la percepiamo preminentemente con sensazioni fisiche e psico-fisiche con le quali ci avviciniamo alla condizione animale – condizione che noi stessi strutturiamo e relazione della quale siamo partecipi “arte/fatti”. “Un turbamento nel quale, con loro [gli animali ndr], tremiamo e ci eccitiamo, osserviamo, ci dissimuliamo, sbaviamo e sanguiniamo”. L’animosità, così animale e vulnerabile per Nancy, sembra portarci a un senso di preoccupazione che ci rode (si avvicinerebbe, questo, a un significato politico dell’angoscia?), a “un’inevitabile rottura del significato di ogni tipo di senso”, che sembra tanto somigliare al grado zero della mimesi, dove non si è simili a qualcosa, ma solo simili. 

Per Taussig, l’inconscio corporeo prende fuoco, rompendoci e aprendoci alle possibilità incalcolabili degli assemblages e di fronte alle quali, senz’altro, siamo nudi e disarmati di fronte a ciò che essi faranno di noi. Il Metamorphic Sublime sembra essere così strettamente collegato alla confusione di immagini e rappresentazioni create per operare su di noi, per rubarci, dubitarci e crescerci dubbiosi, lasciandoci preda di errori e incapaci di comprendere l’inscrizione inconscia dei conflitti irrisolti e degli squilibri di potere, da renderci tutt’altro che inappropriabili. Per Nancy questo è un processo forse impossibile per gli animali: essi sono abitati dall’animazione stessa della vita, comprendono la propria angoscia nel soffio che inspirando è condannato a espirare, che “si spende senza calcoli” nel regno non umano. Mentre noi, noi siamo condannati a un mondo di filtri, di veli, condannati a inventarci “i nostri colori e i nostri suoni”, esclusi in un mondo da costruire con le nostre attese e le nostre paure, il cui senso sfuggevole è per noi incomprensibile: non riusciamo a vivere l’angoscia con la quale stiamo e siamo costruiti nelle relazioni.

Per questo la Mastery of the non mastery può essere animale, e per essere animale, deve essere animale mistico e a-topos: per non avere più davanti a sé quelle forme tramite le quali il controllo diventa irriconoscibilmente in atto e che rendono l’angoscia incomprensibile e senza referente – invece che liberarla come fonte di emozionalità intersoggettiva e trasversale. La mastery of the non-mastery è il punto in cui di fronte al potere si diventa simili ai camouflages che si hanno davanti; si smette di essere un punto di riferimento per chi mercanteggia con le immagini e gioca il suo trucco su di noi, e per il potente non si diviene niente di diverso da una bestia, muta e inarrivabile, persino irriconoscente: incastrata senza scelta in uno scambio inter-specie senza dialogo. Così, per poter non farsi collocare e confondere a nostra volta, per essere animale dobbiamo essere aperti, romperci, per sentire “in noi come in noi stessi tutta l’agitazione, l’eccitazione, il riscaldarsi e l’esaltazione di tutti i sensi, come la bestia che raglia”.

Sembra che la pretesa di non avere alcuna presa sul potere insito in un rapporto, se non quella di non capire più per non farsi carpire e capire, ci trasformi in un inappropriabile di fatto, maestri della non padronanza, liberi fruitori dell’angoscia animale. 

Quando l’allocazione del valore è sbrigliata, ovvero quando il nostro sistema non assegna più un posto pre-fissato e succube a uno dei membri di una relazione secondo lo schema ordinato da una territorializzazione del potere, il potere magico della rappresentazione della vita può scorrere verso l’associazione ignota. La parte inappropriabile, incomprensibile e animale del valore emerge come «Splendido Bagliore» e «sublime metaforico», un eccesso mimetico in cui la stregoneria allucinatoria del potere è rivolta contro chi l’ha sempre usata su di noi. 

Si tratta, dunque, di una mossa contro-egemonica difficilmente controllabile e situabile, che funziona per esempi ed immagini, entro un orizzonte di risoluzione di un’angoscia solo apparentemente irrelata. Se, infatti, per quanto riguarda l’animalità, il segreto del nostro eccesso mimetico di fronte alla manifestazione della in-appropriabilità dell’animale (l’urlo dell’asino o lo Splendido Bagliore) risiede nel fatto che abbiamo costruito “l’Altro animale” dentro un rapporto impari, fatto di milioni di incomprensioni e di violenze allopofaghe quotidiane, con la conseguenza di un’angoscia imperscrutabile, nella situazione corrente siamo di fronte al rischio dello sviluppo di una forma di «animalismo» (nel senso di tensione verso l’animale territorializzata dal potere) molto simile a ciò che culturalmente fu ed è tuttora uno dei lasciti coloniali: il «primitivismo». 

Difatti, così come il primitivismo è il ritorno del Negro attraverso la pretesa della sua estetizzazione-appropriazione estetica da parte “nostra”, il rischio che il potere si appropri dell’animale passa attraverso un analogo e altrettanto particolare gioco magico della mimesi controllata. Per me si avvicina a ciò che Taussig chiama dark surrealism, che intendo come un modo sciamanico tramite il quale il potere squilibrato del capitale userebbe l’animale (leggi il non-umano, l’incontrollabile, il virus) per trasformarci in animali, sì, ma in modo mediato e modellizzato. Non c’è niente di strano in questo, se si tengono a mente le modalità con le quali il valore è stato allocato nella presente crisi del Coronavirus. Se l’in-appropriabilità del valore risiede, in ultima analisi, nella possibilità di mantenere libera la propria angoscia, una mimesi scatenata è ciò che dovrebbe sprigionare il potere magico delle associazioni, permettere di aprire la propria sofferenza alla relazione con il globo, al global meltdown o riscaldamento climatico, e con quella angoscia procreata da tutte le altre relazioni di potere inique. Dov’è Lesbo? Dove sono i braccianti? Dov’è lo smascheramento della retorica dei governi? Dove mette il valore la nostra angoscia? (ma è davvero nostra?)

Mi chiedo, ad esempio, come sia possibile mascherare le responsabilità di Confindustria. Questo intendo quando parlo del surrealismo oscuro e della possibilità di vedere l’animale usato da chi detiene il potere delle immagini/rappresentazioni per rivolgerlo contro di noi, attraverso un lavoro di cultura mediatica alla quale assistiamo spesso impotenti. Il potere, in questa crisi, sembra infatti camuffarsi dentro l’evento naturale incontrollabile (il virus), l’animalesco bestiale per eccellenza, evento che, come il riscaldamento globale, va tutto contro il presupposto del paradigma occidentale: il calcolo umano, il controllo della natura e la rimozione dell’angoscia incontrollata. Eppure il potere non disdegna territorializzare ciò che lo contraddice. 

Come può dunque il capitalismo nutrirsi di un evento incontrollato (il virus), contrario alla sua episteme manifesta – non certo quella pragmatica- per rafforzarsi contro un altro evento incontrollato (climate change), proibendoci un’angoscia metamorfica che ci consentirebbe di smascherare le associazioni nascoste tra questi problemi? Capire il nostro posizionamento di fronte a problemi così politicamente strutturati e camuffati implica, presumibilmente, la possibilità di sentirsi animale e non-umano, di sentirsi animale ma non uno territorializzato, come se le forme del nostro collettivo debbano essere già ordinate e standardizzate. La “natura”, l’animale, non è quello tramite cui si giustificano i decreti di un governo, o le scelte biopolitiche di un sistema economico. Una cosm-etica della mistura presuppone una immaginazione della natura priva di sovranità, una percezione naturale che sia affettiva, il riconoscimento perturbante ed estraniante dell’angoscia che ci suscita l’incommensurabile, il diverso, il Negro (leggi l’orrore/errore quotidiano della nostra vita, “il ritratto brulicante della bestia”. “Bestia in agguato, annusando l’aria a destra e a manca, allarmata dai predatori, bestia impaziente per fame e per la sete, che graffia gli alberi, che uccide altre bestie, che prepara trappole”). 

Il che mi fa pensare agli sciamani, capaci attraverso l’angoscia della morte che gli deriva dai rischi del viaggio yagè, di trasformarsi in animali: bisogna dunque auspicarci ciò che Taussig ha scritto proprio qui:

“Ecco il punto: per via della pandemia le porte della creatività sventolano spalancate. Dobbiamo diventare gli sciamani di noi stessi”. 

Le due immagini ‘di testo’, sono tratte dal primo capitolo sul Rizoma di Mille Piani, di Deleuze e Guattari.

*Oggi trovo curioso il modo con il quale il mio corpo deve mettersi a ballare, letteralmente, per fare in modo di far uscire le galline dall’orto in cui non dovevano entrare. E mi meraviglia come a ogni movimento del mio corpo, compresi quelli quasi impercettibili, corrisponda un cambio di direzione dell’andatura delle galline. La presenza di un’interazione inter-soggettiva che lega il posizionamento dei nostri corpi nello spazio è davvero evidente con loro.