La crisi della civiltà o la fine della normalità

11 Maggio 2020, di Fabián Villegas

illustrazione di Lorenzo Mattotti

*Traduzione e introduzione di Fiorenza Picozza

Fabián Villegas, storico, educatore e giornalista messicano residente in Repubblica Dominicana, è il fondatore della rete “Contranarrativas”, un progetto di comunicazione indipendente, orizzontale e collaborativo, impegnato nella diffusione di narrazioni, epistemologie ed estetiche anti-coloniali e periferiche, provenienti per lo più dal “sud globale”.

Il suo testo che presentiamo in traduzione nasce in seno al continente americano, dove la pandemia ha inaugurato una nuova stagione di diseguaglianza, autoritarismo e necropolitica, con misure drastiche di confinamento, coprifuoco e chiusura delle frontiere che stanno già causando devastanti conseguenze sociali ed economiche. Mentre il governo cileno ne ha approfittato per reprimere e interrompere la stagione di proteste permanenti che aveva interessato i mesi scorsi, e Trump ha sospeso l’entrata di nuovi immigrati negli Stati Uniti, il presidente del Brasile ha adottato una linea negazionista, minacciando ripetutamente l’intervento militare. Se in Italia la pandemia di Covid-19 è stata descritta dai medici di Bergamo come “l’ebola dei ricchi”, dall’altra parte dell’oceano sta emergendo chiaramente come i gruppi colpiti più duramente siano i poveri, soprattutto quando non sono bianchi.

Gli Stati Uniti registrano un fortissimo numero di vittime afroamericane e latine; a New York i corpi non reclamati dai familiari vengono seppelliti nella fossa comune di Hart Island, scavata dai reclusi di Rickers Island. Nel coprifuoco di Guayaquil, epicentro della pandemia in Ecuador, per paura del contagio, i cadaveri delle vittime non ritirati dalle autorità sono gettati e bruciati in strada. I migranti in transito dall’America centrale agli USA, o deportati nel percorso inverso, sono stipati in condizioni inumane nei centri di reclusione presenti alle varie frontiere. Infine, nei pochi paesi con misure di lockdown meno stringenti, come il Messico, si acuisce sempre di più il divario tra la classe medio-alta che incita al “restare in casa”, e la maggioranza della popolazione che vive alla giornata e ha poco accesso a cure mediche e sussidi statali.

In tutto il continente, come accenna l’articolo di Villegas, la questione razziale è al cuore delle eredità coloniali che distribuiscono la povertà in modo sproporzionato verso popolazioni indigene, afrodiscendenti e, generalmente, razializzate come non bianche. Tuttavia, è fondamentale ripensare la questione anche nel contesto europeo, dove regnano sia l’amnesia coloniale che il tabù razziale – dando luogo, in Italia, a speculazioni genetiche sul perché i “neri” non si ammalerebbero di Covid-19, mentre in Svezia la pandemia attacca in modo sproporzionato la comunità somala. In entrambi i continenti non è un mistero che gran parte dei lavori non qualificati ritenuti “essenziali” sono svolti da persone immigrate e spesso non (o “non abbastanza”) bianche. La questione razziale legata alle colonialismo e alle migrazioni di ieri e di oggi, e finora da noi poco pensata, si riconfigurerà in modo inedito con le nuove misure di regolamentazione delle frontiere e con il nuovo patto di cittadinanza basato sulla salute che Villegas ben esprime nelle sue righe.

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Qualche settimana fa, proprio quando la pandemia stava per scoppiare, avevamo previsto che lo scenario risultante sarebbe stato paragonabile a quello dell’11 Settembre, in quanto all’impatto che avrebbe avuto sulle logiche di sovranità territoriale, in particolare riguardo restrizioni alla mobilità, legislazioni anti-migratorie, controllo delle popolazioni, blocchi commerciali e cordoni sanitari.

Ciò che allora, nelle speculazioni delle scienze sociali, si interpretava come un riaggiustamento di piccolo o medio impatto nella scacchiera geopolitica, è poi finito per configurarsi come un dispositivo interplanetario di un nuovo ordine biopolitico, con conseguenze devastanti per quanto ancora imprevedibili. Se c’è una cosa che definisce il ventunesimo secolo non è solo la complessità della crisi, ma piuttosto la convergenza nello stesso evento di una pluralità di crisi eterogenee; non esistono più le crisi al singolare.

Senza rendercene conto, siamo stati presi alla sprovvista da una delle peggiori distopie e, come in tutte le distopie fantascientifiche, ci sono diversi buchi nella sceneggiatura. C’è un universo intero di vettori di oppressione, diseguaglianza e violenza che è rimasto nell’opacità, nascosto sotto l’isteria del contagio, la narrazione della calamità naturale, e la misofobia per cui bisogna combattere l’entrata nelle nostre case del nemico invisibile con tutti i mezzi, attraverso tutte le cartografie e frontiere, anche digitali.

In questa distopia abbiamo appreso un copione in cui non ci sono responsabili. Abbiamo rafforzato la metanarrazione per cui i disastri naturali sono appunto “naturali”, e abbiamo accettato come principio storico il racconto caricaturizzato di un mercato di animali selvatici a Wuhan. Sotto gli effetti dell’infodemia non abbiamo trovato migliore protezione della salute che un individualismo disumanizzante combinato a un fascismo preventivo.

Nel nome dello stato d’eccezione, ovvero della protezione individuale dalla pandemia, è ormai tutto permesso: dalla sospensione delle libertà, alla violazione delle garanzie individuali, passando per militarizzazione, sorveglianza, controllo e regolazione della mobilità, precarizzazione, saccheggio, violazione dei diritti umani, e smantellamento dei diritti del lavoro e della sicurezza sociale. Nel nome di un piano d’emergenza salvifica abbiamo reso la salute un criterio di cittadinanza, per esistere davanti al diritto – sia legalmente che illegalmente – come sani e malati.

La crisi della Covid-19 attraversa tutto, la vita stessa. Rivela il fallimento dei modelli dei sistemi sanitari neoliberali e coloniali, mostra la meschinità e la rapacità lucrative dell’industria farmaceutica, l’accumulazione per espropriazione dei sistemi di pensione privati, la nullità dei diritti del lavoro e della sicurezza sociale davanti alla precarizzazione della vita e alla divisione e stratificazione razziale del lavoro, gli interessi imperiali e geopolitici, le cartografie dello sfruttamento che trascendono la relazione capitale/lavoro, l’urgenza della sovranità alimentare, la fragilità dell’economia dei servizi, i criteri coloniali nei protocolli di ricerca medica, le dispute imperiali e lo sviluppo discrezionale di armi biologiche, la dottrina politica dello shock che sa trarre profitto dalle crisi, il controllo e la sorveglianza sull’accesso all’informazione, il big data e l’epidermizzazione del biopotere, le guerre finanziarie, l’apertura dei regionalismi geo-economici, e infine il corpo come mappa di normazione della vita stessa.

Il grande mito della contemporaneità ci fa credere che siamo tutti attraversati dalla stessa crisi, ma la pandemia non cede alle strutture coloniali. La divisione e stratificazione razziale del lavoro fa sì che la sovraesposizione e vulnerabilità al contagio di alcuni rappresenti la sopravvivenza e comoda bunkerizzazione di altri. I morti di Guayaquil non hanno lo stesso valore editoriale dei morti lombardi. Non entrano in quel regime di rappresentazione universale della morte perché sono segnati da criteri di razza e di classe che riducono i loro corpi abbandonati per strada a un incidente, una negligenza della gestione statale dell’emergenza. Per essere universalizzata, la narrazione emotiva della tragedia deve essere “imbiancata”, omettendo dalle immagini delle grandi testate che l’80% dei malati di Chicago sono afroamericani, coprendo i milioni di sfollati di Mumbai, minimizzando che i colpiti di questa crisi della civiltà, dopo il contagio, saranno per lo più corpi razzializzati, intrappolati nell’ontologia politica del contagio e del salario.

Perfino in mezzo alle retoriche di falso umanitarismo occidentalocentrico che costruiscono un senso di unificazione della “razza umana” nella “lotta” contro la pandemia – come se si trattasse davvero di una guerra con dei soldati anziché cittadini – non si è esitato a rendere pubblica la vecchia consuetudine storica di utilizzare paesi come la Liberia o l’Eritrea come laboratori privati di sperimentazione di vaccini e ricerca medica1.

Per l’egemonia, la concezione coloniale delle geografie residuali e dei corpi sacrificabili è stato un principio storico, dagli esperimenti sulla sifilide in Guatemala, ai cordoni per la meningite in Nigeria, passando per i fatidici test antiretrovirali in Gambia.

La pandemia ha acquisito lo statuto morale di pandemia quando si è eurocentrata, universalizzando la fragilità dell’Europa davanti a un nemico interno che non conosce cordoni sanitari né frontiere chiuse. Dicono bene quelli che sostengono che utilizzare la categoria di “crisi della civiltà” vuol dire arrivare tardi alla conversazione e narrare la crisi a partire dall’esperienza occidentalocentrica e dalla sua costruzione delle cittadinanze metropolitane. Noi popoli di Abya Yala2, non siamo da sempre i sopravvissuti di una crisi della civiltà? L’esperienza afro-diasporica non è da sempre il risultato di una crisi della civiltà? Ormai l’abbiamo interiorizzata la crisi della civiltà. La crisi della civiltà si erge sul recupero della memoria storica nel nostro passato, sull’immediatezza oppressiva del presente, e sull’incapacità di immaginare una metafora per il nostro proprio futuro.

Ci troviamo di fronte a un momento senza precedenti. L’intellettuale afrobrasiliano Abdias do Nascimento aveva previsto che il capitalismo del ventunesimo secolo avrebbe inaugurato una nuova proporzionalità tra l’illusione dei diritti democratici e le nuove forme di oppressione che avrebbero ridefinito l’orizzonte del “politico”; così, la distopia del 2020 ha prodotto un nuovo orizzonte di senso, una nuova grammatica, una nuova concezione del politico.

A differenza di quanto sostiene tutta la bianchissima tradizione di pensiero post-strutturalista – che vede nelle circostanze presenti un’affascinante possibilità di installare nel dibattito pubblico metafore e categorie analitiche ferme alla temporalità coloniale del diciannovesimo secolo – resta aperta la possibilità di pensare il mondo che vogliamo costruire.

Definitivamente, tra il paradigma dell’isolamento totalitario e quello della solidarietà globale c’è uno squilibrio abissale. Non siamo né di fronte alla fine del capitalismo, né davanti alla comoda possibilità di scegliere. La solidarietà globale deve presentarsi come un’alternativa dirompente, contro-egemonica, di articolazione comunitaria, creatività e immaginazione politica davanti alla regolamentazione del sociale che verrà imposta come risultato di questa crisi multipolare.

Se la narrazione egemonica è stata quella di sfruttare la tragedia e la crisi umanitaria per, in molti casi, imporre regimi di controllo, “bio-lenza” e sorveglianza, dobbiamo sfruttare nell’immediato questa narrazione umanitaria come esercizio riparativo e redistributivo, per pensare e articolare forme di disobbedienza civile nella cornice della quarantena e del confinamento.

1 N.d.T. Il primo Aprile, durante una diretta TV, il primario del reparto di terapia intensiva dell’ospedale Cochin di Parigi, Jean-Paul Mira, e il direttore di ricerca dell’Inserm di Lille, Camille Locht, hanno paventato la possibilità di sperimentare in Africa la possibile maggiore resistenza alla Covid-19 causata dal vaccino contro la tubercolosi, giacché dove “non ci sono maschere, non ci sono cure, non c’è rianimazione”, le persone sono più “esposte”.

2 N.d.T. Abya Yala (“terra matura” o “terra del sangue vitale”) è il nome dato al continente americano, prima della colonizzazione, dal popolo indigeno Guna di Panama e della Colombia. È oggi ampiamente accettato come nome ufficiale dai popoli indigeni del continente e, conseguentemente, dagli studi decoloniali.

***Questa traduzione italiana del testo di Villegas è apparsa originariamente sulla rivista Gli Asini, che ringraziamo per la collaborazione.