PAVzine 13 – Le epidemie della biodiversità: biosicurezza senza natura

Contributo per la fanzine del Parco Arte Vivente http://parcoartevivente.it/attivita/progetti/pavzine/

Come gruppo di ricerca ci siamo incontrati e formati attorno ad una epidemia. Non è quella pandemica del Covid-19, ma quella che viene riconosciuta dal nome del batterio che la caratterizza (con tutte le incertezze del caso), Xylella fastidiosa. Approfondendo la ricerca attorno alle controversie che si sono sviluppate a partire dalla presenza del batterio in Puglia, ci siamo trovati a interessarci e a studiare la biodiversità vegetale. La nostra prospettiva rimane quella di umanisti che escono fuori dai loro settori disciplinari, e che si misurano con le possibilità di intendere un mondo a partire dalle relazioni che si intessono tra specie diverse, specie di entità quanto specie di cose. Pensare tra la Natura e la Cultura, i due campi epistemologici della modernità, è una sfida per noi soprattutto politica: se seguiamo le fila di questi ragionamenti, troviamo una posizione nella quale nessuna Natura può esistere esclusa dalle dinamiche umane, di potere, sfruttamento ed espropriazione. Pensiamo che parlare delle relazioni e dei loro movimenti (rifuggendo dai determinismi) sia fondamentale in questa fase di profonda indeterminatezza e riconsiderazione di tutto ciò che ci sta attorno, sia essa tecnologia, o invece diversità genetica.
Eppure, pensando agli olivi di Puglia così come alla crisi pandemica, ci siamo sentiti di dover approfondire la nostra visione rispetto alla possibilità di agire con o contro le entità e gli esseri che ci circondano. Se non si tratta più di proteggere la Natura, recintandola e delimitandola attraverso una burocrazia della museificazione antropocentrica, di cosa si tratta? Che genere di lotta è quella ecologica? In questo breve testo prenderemo spunto dalle nostre ricerche per chiederci qualcosa in più rispetto al ruolo della biodiversità nelle strategie di biosicurezza: a partire da una concezione dell’epidemia non come evento eccezionale, ma come costante fenomeno di interazione con le diversità vegetali e animali, quali possono essere le ‘buone pratiche’ di interazione e circolazione? Siamo convinti che una domanda a questa risposta coinvolga una concezione diversa delle entità con le quali viviamo, una riconsiderazione dell’evento epidemico e delle possibilità di agirlo.

Come collettivo abbiamo studiato le tecniche di gestione emergenziale delle entità non umane: queste rispondono ad un paradigma abbastanza noto, quello che tende a definire e distanziare una vita patologica da una sana. In entrambi i casi abbiamo visto affermarsi tecniche di sorveglianza e sanificazione, con una conseguente proliferazione di confini tra sano e patologico. Seppure possano essere considerate tecniche efficaci per la gestione dell’emergenza, con tutto il suo carattere infodemico, non è sicuramente augurabile una loro propagazione nel tempo. Nel caso della Xylella ormai parliamo di politiche di contenimento (come si può contenere un batterio ineradicabile?) in deroga permanente, vuol dire che tutte le politiche dell’emergenza e la loro uniformazione delle pratiche agricole andranno in deroga ad altre regolamentazioni, fino ad un tempo indefinito (questo l’ultimo decreto del Ministro Bellanova). Nel caso del covid-19, solo in un secondo momento si è concretizzata la possibilità/ necessità di convivere con questo virus: che cosa succederebbe se dovessimo ripensare in tempi lunghi l’interazione con questo elemento invisibile? Lockdown in deroga permanente? Da queste considerazioni ci sembra urgente una riflessione attorno alla biosicurezza, ovvero attorno alle tecniche di governo che tendono a mettere in sicurezza la vita – alle volte negandola (non ci riferiamo esclusivamente ad una concezione antropocentrica della vita). E’, da questo punto di vista, comunemente accettata in entrambi i casi che abbiamo preso in considerazione, la responsabilità delle relazioni ecologiche che il tardo capitalismo globalizzato ha improntato. La scala delle commistioni tra umani e non umani e la loro circolazione sono all’origine di queste epidemie.

Proprio nella convinzione che non vi sia uno stato non-epidemico, crediamo che ciò di cui abbiamo bisogno, al confine tra città e campagna, sia una considerazione approfondita delle pratiche di interazione, delle logiche razionali e irrazionali che le guidano. Non per arrivare ad uno stato non-epidemico, ma tutt’altro per favorire epidemie alle quali le comunità territoriali possano rispondere, ridelineando, di volta in volta, il munus – come direbbe Esposito – i limiti del sacrificio che istituisce la comunità stessa.

Riprendiamo questo punto in questa PAVzine, perchè è proprio da un lavoro a cui ha contribuito il PAV da cui abbiamo preso (anche) spunto per ragionare attorno a queste tematiche. Aesthetics, Necropolitics and Environmental Struggle è l’ultima pubblicazione del collettivo Critical Art Ensemble (CAE, d’ora in poi). Nel saggio occupa un posto centrale la discussione circa la gestione del selvaggio (care for the wild). Dal momento che il selvaggio non esiste più (quello che abbiamo chiamato Natura più in alto), quando si parla di questo tipo di gestione ci si riferisce ai modelli popolari tra i professionisti della gestione della ‘vita selvatica’.

A questo proposito si riconoscono tre paradigmi fondamentali – dai quali possono essere declinate teorie più sfumate. La prima e più antica prospettiva è quella della preservazione scenica. In questa prospettiva la regolazione è per la gran parte orientata a gestire i termini dell’interazione umana con un determinato spazio: cerca di controllare la quantità di umani che accedono alla terra, cosa possono fare e come lo spazio viene sviluppato (infrastrutture). La seconda prospettiva è quella che è improntata al supporto della diversità biologica. Si intende sia diversità biologica di specie (quante varietà di olivi) che di habitat (solitamente ci si riferisce a quest’ultimo). Questa prospettiva, secondo CAE, include anche coloro che concepiscono il primo obiettivo della gestione quello della variabilità genetica. Gli interventi saranno allora tesi al mantenimento o all’aumento di questa variabile. Il problema di questo approccio è che i parametri vengono stabiliti in funzione di specie vegetali e animali indigene. In qualche modo, invece di veicolare il naturale cambiamento degli ecosistemi, un approccio così specificato rischia nella pratica di lavorare per una loro cristallizzazione. Nella prospettiva più recente invece, si sostiene un approccio più sistemico e basato sui processi. Questo approccio apre ad una indeterminatezza nei termini di cosa appartiene al sistema, e non comporta una lotta al cambiamento fino a quando il processo rimane sano. A ben vedere è proprio l’attenzione e la cura del ‘selvaggio’ a caratterizzare la fenomenologia delle epidemie.

La biodiversità è un campo di confronto e scontro che coinvolge pienamente l’umanità. Questi paradigmi si possono riscontrare in forma diversa nelle legislazioni degli stati nazionali. Il tentativo è allora quello di viaggiare tra gli interstizi di questi paradigmi e concepirne nuove declinazioni. Un esperimento importante in questo senso è quello fatto dal CAE dal 2011, più volte ospite del PAV a Torino: con un team di agronomi si è studiata la legislazione in merito alla protezione delle piante. In un secondo momento si sono associati spazi vulnerabili a piante protette. In questa maniera, giocando sull’esistenza del selvaggio nella giurisprudenza, si generano alleanze inaspettate tra piante protette e umanità spogliate di ogni diritto, lasciate morire.