Kudzu in Scatola: Studio Parasite di Aria Dean

Foto: Kerry Britton/U.S. Forest Service/USDA [CC BY 2.0]/Flickr

Il Kudzu (Pueraria montana var. Lobata) è una pianta rampicante perenne nativa dell’Asia Orientale. Viene introdotta per la prima volta negli Stati Uniti allo scopo di abbellire – e ricoprire – il padiglione giapponese alla Centennial Exposition di Philadelphia nel 1876. Negli anni 30’ e 40’ del secolo successivo la rigogliosità di questa pianta troverà anche altri utilizzi, inizierà ad essere usata nella produzione di mangime per bestiame a basso costo e per ricoprire i suoli, al fine di prevenire la loro erosione. Infatti, il ‘ricoprire’, sarà un qualcosa che il Kudzu continuerà a fare anche quando la pianta smetterà di essere utilizzata in agricoltura e zootecnia. Da lì in poi il Kudzu inizierà a ricoprire un po’ tutto. Aiutata dal favorevole clima subtropicale degli stati del golfo, questa rampicante ‘aliena’ inizia a competere con la flora ‘nativa’, ammantandola, privandola interamente dei raggi solari, facendo lentamente decomporre le piante che ricopriva. Se provate a cercare il Kudzu su Google vedrete immagini di vecchi ponti, edifici ed auto abbandonate, interi paesaggi, alberi, cespugli, radure, tutte completamente ammantate, interamente ricoperte da questa rampicante. Si può immaginare perché ci interessi tanto. Il Kudzu è una biologia ferale che crea ecologie ferali – è una vita non-umana che, nell’entrare in contatto con le infrastrutture umane (in questo caso il trasporto transcontinentale e i suoi successivi utilizzi agrotecnici e zootecnici), diviene incontrollabile e deleteria per le altre vite non-umane (e umane). Al Kudzu, tra l’altro, sono dedicati due articoli nel Feral Atlas (Tsing et al. 2020) (qui e qui). Ulteriormente, la ‘feralità’ stessa del Kudzu è a sua volta al centro di una controversia scientifica, che divide le comunità di ricerca tra chi sostiene che questa pianta si stia lentamente “mangiando il Sud [degli Stati Uniti]” e chi invece sostiene che non sia molto più pericolosa di altre specie invasive.

Aria Dean è un’artista, critica e curatrice che vive tra New York e Los Angeles. “Studio Parasite” è l’opera che Cory Scozzari e il suo progetto CORDOVA ha portato a Barcellona nel barrio La Marina del Prat Vermell, un’esposizione artistica “dedicata al Kudzu”. Arrivati a quella che pensavamo fosse la destinazione e non trovando nessuna particolare indicazione, abbiamo cercato il numero di Cory su internet, lo abbiamo chiamato, ci siamo fatti aprire; abbiamo con lui preso l’ascensore – che era forse più un montacarichi – per ritrovarci al terzo piano di questo edificio industriale dismesso. Entriamo in una stanza illuminata da due finestre molto grandi. Sul pavimento della stanza, due semenzai a letto fatti di legno nei quali vi erano delle minuscole piantine di Kudzu appena spuntate. I semenzai erano a loro volta protetti da cubi di plexiglass, su ciascuno dei quali erano posizionati dei fari a led. Parlando con Cory veniamo a sapere che riuscire a far spuntare il Kudzu è stata quasi un’impresa (le doti contadine di Cory verranno anche sottolineate dalla stessa autrice dell’opera Aria Dean). In pratica, questa pianta rampicante mostruosa, che cresce smisuratamente, che ingloba tutto, al punto di essere estremamente regolamentata dai dipartimenti di agricoltura americani e (molto probabilmente anche) dai servizi fitosanitari europei, giace lì nella sua totale vulnerabilità, incubata da uno spettro di luce ottimale e da lastre di plexiglass, per proteggerla da ciò che è fuori, inscatolata. Il senso dell’opera va però ben oltre una lettura ‘ecologica’, quella di una tensione biologica tra fragilità e dirompenza, tra controllo e fuori-controllo materiale e politico. Abbiamo pensato, per questo, di tradurre e riproporre il testo che accompagna e presenta l’opera. L’introduzione di Cory Scozzari e le parole dell’autrice Aria Dean, che salutiamo e ringraziamo molto per averci concesso di condividere il seguente testo.   


Aria Dean
Studio Parasite
Cordova Gallery (Barcellona)
20 Febbraio – 17 Aprile 2021

Il Kudzu è una specie di pianta parassitica, nativa dell’Asia, ma invasiva in Nord America e Europa. Questa pianta fu portata intenzionalmente in Nord America alla fine del 1800 per via delle sua qualità estetiche ed agricole. Una rampicante con un fogliame rigoglioso e dai fiori viola dal dolce odore fu originariamente commercializzata come pianta ornamentale ideale a fornire ombra alle verande e, successivamente, usata industrialmente, come pianta di copertura al fine di prevenire l’erosione dei suoli e come foraggio per bestiame ad alto contenuto di proteine.

Negli Stati Uniti sud-orientali, questa pianta di diffuse eccezionalmente bene a causa delle condizioni climatiche simili al suo ambiente nativo. Dalla sua prima introduzione in questa regione, il Kudzu ha proliferato esponenzialmente, espandendosi ben oltre gli scopi previsti. Ora essa forma una parte quintessenziale del paesaggio e del folklore dell’“American South”.

Il Kudzu essenzialmente strozza tutte le altre vite vegetali e, al posto di sostenersi da sola, cresce in cima ad altri oggetti — piante, infrastrutture, tralicci, edifici, etc. — per raggiungere la luce. Può crescere fino a 30 centimetri al giorno se esposta a luce diretta. La pianta è anche resistente agli stress, sopravvive in climi avversi con suoli scarsamente azotati. Il solo modo di disfarsene è bruciandola.

Per l’installazione in “Studio Parasite”, uno dei tanti lavori dell’artista incentrato sulle rampicanti, Dean ha progettato due semenzai, nei quali sono stati trapiantati dei germogli di Kudzu spuntati da semi, interrati poco prima dell’apertura della mostra. I vasi di legno sono racchiusi in cubi di plexiglass, al fine di prevenire possibili contaminazioni nell’ecosistema locale, e posizionate sotto delle lampade fluorescenti a led, comunemente associate alla coltivazione di marijuana. Le piante saranno sottoposte ad un periodo di crescita intensiva per tutto il periodo della mostra, programmato per l’inizio della primavera, con accesso continuo di luce naturale attraverso le finestre e luce artificiale proveniente dalle lampade. Le piante cresceranno fino alla settimana conclusiva della mostra, dopo saranno bruciate; radici, vasi, terra, tutto. Le ceneri verranno riposte nei cubi di plexiglass capovolti e spedite indietro all’artista che le utilizzerà per una nuova serie di sculture.

La mostra crea un sistema parassitario in assenza di un ospite — o se anche l’ospite ci fosse, sarebbe il solo cubo. Il sistema, a cui la mostra da un inizio, modella qualcosa di simile all’arte o ad una pratica di studio, riciclando e intercambiando idee e materiali — però modellando l’arte come una struttura parassitica, che necessariamente territorializza tutto ciò che è attorno per mantenere sé stessa viva. Ciononostante, qui il parassita è, ancora, fisicamente privo di ospite. D’altra parte, l’interesse di Dean verso il Kudzu si situa nel suo parallelismo potenziale con la “blackness”, un ritorno alle sue passate indagini attorno l’ontologia della “blackness” come una specie di forza virale, un sistema di senso capace di riprodurre sé stesso e i propri significati strutturali senza nessun nucleo ontologico.

Cory John Scozzari


La roba del Kudzu è partita come un altro scherzo per certi versi — o no, era abbastanza serio, quando stavo cercando di scrivere la sceneggiatura per “The Hammer” e pensavo al Sud. Mi stavo sforzando nel cercare di visualizzare una piantagione abbandonata e ricordavo mia nonna —

In realtà no, andai a dare un talk ad Atlanta nell’agosto del 2019 e non tornavo lì da qualche anno. Ero solita visitare la mia “Abuela” lì ogni estate con mio fratello piccolo. Ho dato il mio talk e ho passato un paio di notti a Decatur [Georgia, USA] a casa sua. Lei guida, ma in realtà non dovrebbe farlo, quindi principalmente impiegai il mio tempo scarrozzandola in giro nella sua piccola KIA – la banca, il supermercato, visitando i miei cugini a casa di mia zia.

Mi ero dimenticata che una parte enorme della nostra routine è sempre stata costituita dal notare cose strane su Atlanta. Essendo lei di New Jersey e avendo vissuto a New York nel corso della maggior parte della sua vita adulta, Atlanta è a lei un territorio estraneo e le piace mantenerlo tale. Mentre andavamo in giro faceva sempre la sua cronaca su questioni come: il modo in cui dicevano “cee-ment” al posto di dire “cement”, “in-shurns” al posto di “insurance”. Visualmente: l’argilla rossa sotto tutto, e il Kudzu che ostacola la vista del bosco e si arrampica su tutto ciò a cui si può attaccare.

Ho fatto un’intera mostra usando l’argilla rossa un paio di anni fa, che diventò — in parte — su come avessi fatto una supposizione errata, perché effettivamente nel Sud buona parte suoli sono solitamente di un normale color marrone. L’argilla rossa è diffusa a macchia di leopardo nella regione. Culturalmente, comunque, c’è tutto questo dire su “l’argilla rossa”. Mi piacciono queste cose; l’irrealtà dell’identità culturale americana e degli immaginari geografici. Il Kudzu è un altro cliché del Sud degli Stati Uniti. Flannery O’Connor, Toni Morrison, tutti questi scrittori che affrontano il Sud — li trovi parlando del “Kudzu attorcigliandosi sulle tegole marcenti…” “La figura oscura delle rampicanti di Kudzu che soffocano gli alberi…”

Lo vedi anche nell’immaginario apocalittico. Perché se lasciato a sé stesso il Kudzu semplicemente sopraffarebbe tutto, è questa l’idea. Il Kudzu — rampante, aggressiva, inarrestabile. E quando ciò avviene, aderisce sulle cose, prendendo la loro forma. Una sorta di mutaforma botanico, virus, slime, uno di quei parassiti che si impadronisce del suo ospite, il suo unico scopo è il continuare a propagarsi. Forse questa è una analogia errata, forse è solo una crosta fogliare.

La cosa buffa è che la comunità scientifica è al momento imbrigliata in un dibattito sul se il Kudzu sia effettivamente così potente. Tutta questa leggenda sullo strozzamento degli ecosistemi — che ha poi portato la pianta ad essere estremamente controllata come organismo nella maggior parte dei paesi — è compromessa dal fatto che spesso il Kudzu sembra crescere ad un ritmo allarmante solo quando esposto direttamente al sole. Appena entri in una foresta svanisce immediatamente. Una minaccia, ma vuota.

Mesi dopo quel viaggio, provai a farmi inviare delle talee da un paio di persone che conoscevo ad Atlanta. Erano tutt* impaurit* dalla mia richiesta. Generalmente sono una persona poco insistente, non ho quindi polemizzato sul fatto che il Dipartimento di Agricoltura non era affatto preoccupato di noi. Ho anche chiesto ai miei cugini ed erano tipo “non so di cosa tu stia parlando”. Alla fine ho trovato alcuni semi su eBay e me li sono fatti spedire dalla Russia usando un VPN.

L’idea, quindi, era quella di piantare una miriade di semi in vari luoghi. Qualsiasi mostra mi avessero proposto, gli avrei suggerito di far rientrare l’esposizione in questa rete di cellule dormienti, dove avremmo coltivato questa pianta, fare un’esposizione sgombra di qualsiasi contenuto. Semplicemente processo, e qualsiasi senso desiderato avrebbe potuto essere proiettato su di esso dall’istituzione o dallo spettatore. Avevo i miei pensieri sulla “blackness” — la cosa della minaccia ecologica non era così interessante per me, più che altro l’immagine della minaccia (l’immaginario della minaccia?) era per lo più il fatto che qualcosa avrebbe potuto facilmente sopraffare tutto ciò che aveva davanti, senza però cambiare la composizione cellulare e molecolare degli altri oggetti nel processo, ma allo stesso tempo imbrigliando tutto in se stesso. Un virus, uno slime, un parassita che si impadronisce del suo ospite. Realizzo ora che questa è un’analogia errata, si, perché certamente la “blackness” sì rielabora la composizione interna delle cose che tocca, in un certo modo. Se stiamo parlando della giusta “blackness” (blackness non Blackness?) la vita del Kudzu è un oggetto estetico, il suo essere è strutturale. La vita della Blackness, purtroppo, è nella maggior parte delle volte un oggetto estetico, ma il suo essere è di tipo strutturale. Sì, è così.

Per tanto, nelle mie piccole cellule, la pianta sarebbe cresciuta offrendo nient’altro che la sua crescita e, per fare qualsiasi altra cosa oltre che essere, avrebbe avuto bisogno di essere rinforzata da una qualsiasi impalcatura mentale collocata nel suo cammino.

Qualche altra cosa è successa, il tempo è passato. Volevo fare tutte queste cellule dormienti. Coltivarle. Bruciarle. Convertirle in oggetti reali mescolandole con altri materiali (vedremo come andrà se proprio andrà). Siamo quasi riusciti a montarne una a Pasadena, al [giardino botanico di] Huntington (per qualche motivo, sono stati quasi disposti a rischiare un piccolo, ma potenziale disastro ecologico nei loro terreni. Per amore del gioco!). Uno in Svizzera, quasi. Ho pensato di rimpatriare il progetto in Asia orientale. Ho lasciato accidentalmente uno dei miei semi VPN in un parco nel West Village, in una buca poco profonda che ho scavato. Il mio assistente Sam ed io abbiamo iniziato ad installarne alcune qui a New York grazie agli utili consigli di Marisa del [centro culturale] Pioneerworks. Sam ha portato a casa sua un po’ dei miei semi VPN, provando inutilmente a farli germogliare. Poi, usando un’app, ha trovato un campo di Kudzu a Bushwick, che si era impossessato di un intero campo di baseball a un isolato da casa sua. È anche stato in una ferrovia abbandonata di Midwood, nel cuore della notte, per prendere alcune talee. Nessuna di queste è cresciuta, sono tutte morte nei nostri rispettivi appartamenti nel giro di pochi giorni, all’arrivo dell’inverno.

Cory è l’unico che ha avuto fortuna in questo. Ho provato a ricreare il suo processo, facendo germinare i semi e ficcando luce solare dentro le loro gole, ma non è successo niente. Immagino che ai semi piaccia Barcellona e Cory.

Tutta la cosa è nata da questa idea di voler modellare una pratica artistica. Non si tratta solo cinicamente di ridicolizzare l’incapacità dell’arte del 21°secolo nel presentare un argomento a giustificazione della sua stessa esistenza (parassitica sulla schiena della politica, storia, identità, biografia, e così via), ma performare un parallelismo con il processo di pollinazione, cambiando le idee e i materiali attraverso forme e mezzi. Avremmo preso (lo faremo?) metà delle ceneri dalla partita che avremo ottenuto a Barcellona e da lì costruire nuovi semenzai composti al fine di far crescerne altri nuovi da qualche altra parte, e l’altra metà sarebbe stata incorporata come materia prima per delle “opere d’arte”. Queste opere avrebbero dovuto/dovranno modellare alcuni oggetti in eccesso, la parte maledetta, il plusvalore – Sto solo dicendo parole ora. Forse significa solo un capitale morto. Piante morte. Capitale morto. Un tempo organiche forza vitali, ora imbalsamate in materiali e forme.

C’è un’opera di Robert Morris, “box with a sound of its own making”. È un circuito perfettamente chiuso a mio parere. La scatola è l’opera che costruisce l’opera, la scatola. Un loop materiale perfettamente autoreferenziale, con un vero e proprio loop sonoro inscatonato. Immagino che Studio Parasite (che ad un certo punto era chiamato Bad Infinity, un maldestro riferimento a Hegel su cui sto ancora lavorando) è il mio tentativo di reiterare [looping] me stessa attraverso questo oggetto surrogato, il Kudzu, con la consapevolezza che io non posso mai essere sigillata ermeticamente. E soprattutto, con la consapevolezza che questo non può essere l’obiettivo. In retrospettiva, tutto il progetto fu una grande scusa per colmare il solco tra i lavori apparentemente analitici e minimalisti precedenti e ritornare all’espressione – per quanto sempre catturando il tutto con una lente storica e concettuale minimalista. Forse Studio Parasite non ha bisogno proprio di esistere più; per certi versi stare seduti a casa per quasi un anno ha realizzato la stessa operazione, facendomi ritornare al gioco, e restaurando incidentalmente la frontiera tra Arte e arte. Ma il bello dell’Arte e dell’arte è che mai necessita di esistere, ma certo necessita di essere in una determinata maniera (Che solo tu (io) posso (puoi) conoscere).

C’è molto altro da dire, ma è sempre così.