Leggere l’Antropocene attraverso i rifiuti

di Nives Ladina

 

«The garbage was down there, stacked in identical black plastic bags, and she walked home past a broad mound that covered a fire hydrant and part of a bus sign and she saw how everyone agreed together not to notice».

(Don DeLillo, Underworld)

Ai tempi della pandemia da COVID-19, i discorsi ufficiali delle autorità politiche e degli esperti hanno posto in primo piano i bilanci di vittime e contagi, oltre a fornire ordini e raccomandazioni per limitare la libertà di movimento con lo scopo di prevenire la circolazione del virus. Questo ha avuto l’effetto di relegare sullo sfondo altre situazioni considerate emergenziali: tra questi disastri – che non sono mai solo naturali ma anche sociali –  è possibile citare l’aumento della produzione di rifiuti, soprattutto quelli composti dai materiali monouso. Ciò può apparire paradossale, dato che la proliferazione di un’epidemia induce il gruppo sociale colpito a riflettere su idee come quella di igiene e sulla percezione dei rischi d’infezione, ridefinendo collettivamente i concetti di sporco e di pulito.

Nel corso degli ultimi decenni, lo sviluppo di una “scienza dei rifiuti” ha portato questi ultimi a essere percepiti come un problema connesso al loro smaltimento attraverso un dibattito tra urbanisti, economisti e geografi, oltre che ingegneri: l’interesse per la ricerca di soluzioni rivolte al contenimento delle masse di scarti prodotti non è andato di pari passo con una riflessione sul modello produttivo e di consumo che le ha rese possibili. In realtà, vi sono aspetti politici, sociali e culturali legati alla percezione, alla rappresentazione e alla gestione dei rifiuti – visibili e invisibili – che ogni giorno continuano a essere prodotti in grandi quantità.

Allo stesso tempo, l’analisi di questa “vita sociale dei rifiuti” può rappresentare anche un punto di osservazione per affrontare un altro tema difficilmente comprensibile a causa della sua vastità e complessità, cioè quello dei cambiamenti climatici. La ragione risiede nel fatto che lo studio dei prodotti del post-consumo permette di prendere in considerazione tutto quello che rifiutiamo nell’epoca denominata “Antropocene” ma che è destinato a riemergere in modo perturbante.

A essere  respinte sono quelle idee, quegli oggetti e soggetti umani e non umani che destabilizzano e mettono in discussione l’immagine che abbiamo di noi e della nostra identità a livello individuale e sociale. Questa considerazione si applica nel caso della spazzatura, perché essa rappresenta una presenza-assenza quotidiana solitamente trascurata: la maggior parte delle persone sa poco di ciò che succede agli oggetti che ha gettato via ma anche delle sostanze climalteranti che ha disperso nell’atmosfera come prezzo da pagare per sfruttare dispositivi tecnologici e mezzi di locomozione che funzionano con i combustibili fossili. Per questo, le trasformazioni dell’ambiente che ne derivano sono allontanate dalla vista, così da non risultare troppo disturbanti ed emotivamente insostenibili: solo in questo modo è possibile continuare a vivere come si è sempre fatto.

 

Quello che è possibile affermare è che c’è un principio democratico nei rifiuti, poiché essi parlano di tutti gli strati della società, permettendo sia di guardare i cambiamenti dell’ambiente sia di studiare dinamiche di potere solitamente tenute segrete. Per esempio, le autorità nazionali e locali scelgono generalmente di dislocare i rifiuti verso le aree abitate dalle fasce di popolazione che hanno meno capacità di far sentire la propria voce a causa di una carenza di risorse economiche e sociali. Il tratto peculiare di questi spazi geografici e sociali è stato efficacemente riassunto nell’espressione slow violence impiegata da Rob Nixon per indicare:

«A violence that occurs gradually and out of sight, a violence of delayed destruction that is dispersed across time and space, an attritional violence that is typically not viewed as violence at all. (…) A violence that is neither spectacular nor instantaneous, but rather incremental and accretive, its calamitous repercussions playing out across a range of temporal scales» (Nixon R. 2011 p. 2).

Anche se l’ambientalismo è stato a lungo inteso come un movimento promosso dalle élite bianche dei paesi nordoccidentali che concepiscono la natura quale spazio ricreativo per il tempo libero, oggi questa immagine può essere integrata con il riconoscimento di una serie di nuovi fenomeni emergenti: per i gruppi sociali più svantaggiati e le comunità indigene l’ambiente è il luogo in cui si situa la vita sociale e quella biologica. La difesa del paesaggio è connessa a quella della popolazione che lo abita ed è per tale ragione che a volte le rivendicazioni di giustizia ambientale non si collocano apertamente sotto la categoria di ambientalismo pur portando avanti i medesimi obiettivi.

Per quanto riguarda le lotte compiute a livello nazionale, queste ultime tendono ancora a essere sminuite come esempi del fenomeno riassunto sotto la dicitura “NIMBY” (not in my back yard). Ciò ha avuto l’effetto di giudicare egoiste e volte a rifiutare ogni tipo di infrastruttura non voluta (Armiero M. 2015) tutte le forme di protesta portate avanti dalle comunità che si sono opposte, ad esempio, alla costruzione di infrastrutture per la viabilità vicino alle loro abitazioni, come nel caso degli attivisti No TAV in Val di Susa. In realtà, se questa valutazione può essere calzante nei confronti delle fasce più benestanti della popolazione, essa non coglie la volontà di resistere da parte dei gruppi marginalizzati a una forma di potere che tenta di essere imposto dall’alto senza che i diretti interessati siano interpellati. In questo modo, i cittadini abbandonati dallo Stato sono stati screditati per mascherare le discriminazioni di classe sulle quali si fonda la possibilità stessa di imporre in un luogo abitato la costruzione di un’opera pubblica che minaccia la qualità di vita e la salute delle persone.

Ciò può avvenire con maggiore facilità nelle società che possiedono una visione naturalista, cioè tra quelle culture in cui si è assistito all’invenzione della “natura” come campo esterno alla volontà dell’uomo (Descola P. 2006), a cui si contrappone un campo specificatamente umano caratterizzato dalla libera creazione. L’ambiente finisce per essere  presentato come uno spazio inerte privo di difese, fragile e soggetto a una protezione che può provenire solo da un attore esterno (Eriksen T. 2017). In tal modo, si assiste al tentativo di ricondurre ogni fenomeno alla sfera della natura o a quella della cultura, così da riaffermare l’illusione dell’esistenza di un uomo privo di vincoli nel suo agire. Tale processo di rimozione delle forme di interdipendenza ambientale ha avuto come conseguenza una mancanza di parole e di espressioni con cui riferirsi al rapporto che l’uomo intrattiene con lo spazio circostante e con cui sottolineare le peculiarità del mondo attuale: questo ha reso particolarmente difficile comunicare a livello collettivo rispetto a quegli ibridi di natura-cultura che si manifestano in maniera imprevedibile e con frequenza crescente.

Secondo Thomas H. Eriksen, ci troviamo di fronte a una realtà “fuori controllo” a causa degli effetti di surriscaldamento e accelerazione che la globalizzazione ha causato all’interno di diversi ambiti dell’esistenza umana, rendendo impossibile una loro gestione e determinando l’emergere di una serie di effetti collaterali non prevedibili. I fenomeni che secondo lui meglio rappresentano questa nuova dinamica sono la crescita della popolazione mondiale, il consumo di fonti energetiche non rinnovabili, la mobilità associata ai fenomeni migratori e al turismo di massa, l’espansione delle città e delle aree periurbane, la massiccia produzione di rifiuti e la diffusione dell’utilizzo di mezzi tecnologici per comunicare, che ha determinato la creazione di un enorme quantità di dati che richiedono molte risorse energetiche per essere trasmessi e conservati.

La crisi dei rifiuti non è altro che una delle conseguenze delle altre accelerazioni, poiché il consumo di energia produce inquinamento, le persone muovendosi lasciano rifiuti dietro di loro, i centri urbani generano grandi quantità di scarti e il mondo dell’informazione causa la presenza di messaggi superflui ma anche di un’enorme quantità di apparecchiature elettroniche che vengono buttate via ogni anno. L’altra faccia dei processi produttivi e di consumo è la creazione di residui sia di tipo visibile sia invisibile. perciò è possibile sostenere che la questione del surriscaldamento atmosferico e, più in generale, l’idea dell’inizio di una nuova epoca hanno a che fare con un problema di rifiuti, materiali ma anche simbolici. Anche se nel campo antropologico questo tema è diventato oggetto di ricerca solo recentemente ed è ancora piuttosto marginale all’interno della disciplina, la questione della contaminazione ne costituisce un precursore e ha precocemente guadagnato una certa rilevanza.

Il testo Purezza e pericolo di Mary Douglas costituisce un punto di partenza imprescindibile per l’analisi del  binomio puro/impuro: la tesi proposta dall’autrice è che la sporcizia è «un qualcosa fuori posto» (Douglas M. 1975 p. 77) e ciò a causa di una precedente organizzazione del sistema che ha fissato il ruolo di ciascun elemento. Per questo motivo, i rifiuti possono costituire uno specchio del gruppo sociale che li ha prodotti, oltre a diventare dei fossili della contemporaneità destinati a indicare alle generazioni future quali scelte sono state compiute dai loro predecessori: i segni che vengono lasciati dall’umanità costituiscono degli indizi preziosi per ricostruire le pratiche a essi associate, le relazioni che essi hanno reso possibili, i percorsi che hanno tracciato nello spazio, e così via. 

D’altra parte, questa lettura deve essere integrata da uno sguardo capace di riconoscere l’importanza degli oggetti scartati a partire dalla loro presenza fisica e dalla loro materialità non completamente controllabile. In questo secondo caso, si può parlare di un approccio orientato all’oggetto e non solo al soggetto che sul primo esprime un giudizio: Bruno Latour ha utilizzato l’espressione “attanti” proprio per indicare gli attori umani e non umani che fanno parte di queste  reti di relazioni (Bontempi M. 2017).

A questo proposito, un caso di conflitto ambientale legato al tema dei rifiuti che ha avuto grande risonanza e ha attirato l’attenzione sia del mondo accademico e sia dell’opinione pubblica è stato quello campano della cosiddetta “Terra dei Fuochi” (1).  Per quanto riguarda la sua genesi, lo stato di emergenza è stato indetto tra il 1994 e il  2008 (Burgalassi D. et al. 2010) (2): questo ha determinato la presenza in quegli anni di un Commissariato di governo per l’emergenza rifiuti a cui sono stati conferiti una serie di poteri straordinari, che hanno privato le amministrazioni locali delle loro funzioni con l’effetto di ridurre il carattere democratico dei meccanismi decisionali.

Occorre compiere una distinzione tra due processi che hanno avuto luogo in questo territorio, i quali pur essendo tra loro intrecciati possiedono un valore differente: da un lato, vi è la cattiva gestione da parte delle autorità preposte dei rifiuti di natura domestica e industriale, che ha determinato la loro proliferazione negli spazi urbani e la moltiplicazione delle discariche. Dall’altro lato, invece, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, si è assistito allo sviluppo di un accordo tra gli apparati dello Stato, le imprese del Nord Italia e la Camorra per disperdere i rifiuti pericolosi nelle campagne della Campania (Armiero M. 2014). Ciò ha portato al consolidamento di una pratica di smaltimento illegale di rifiuti speciali e pericolosi provenienti da diverse aree dello Stato italiano – rendendo di fatto questo territorio una sorta di pattumiera del “Bel paese” – tramite il loro seppellimento, il loro sversamento all’interno delle acque e, infine, la loro combustione per mezzo di incendi di natura dolosa.

Dopo una prima fase segnata dalla passiva rassegnazione da parte degli abitanti dei comuni più colpiti, a partire dal 2000 i roghi dolosi hanno iniziato ad acquisire una nuova visibilità a livello pubblico. La diffusione dell’espressione Terra dei Fuochi – da ora in poi tdf – ha rappresentato un invito a ricostruire i legami tra le motivazioni del disastro ambientale e i suoi possibili responsabili: in un certo senso, la sua introduzione ha rappresentato un vero e proprio salto qualitativo (Alliegro E. 2017), dato che essa ha simboleggiato l’intenzione di transitare dalla volontà di descrivere una situazione a quella di denunciarla sia per quanto riguarda il lato ambientale sia quello sociale.

L’attenta osservazione del cielo è diventata un mezzo per riconoscere una situazione di degrado ambientale e di disfunzione a livello sociale e sanitario: la tdf è uno spazio in cui i rifiuti tossici seppelliti, riversati nelle fonti d’acqua e dispersi nell’atmosfera tramite la loro combustione si infiltrano negli organismi degli esseri viventi. Allo stesso tempo, questo contesto geografico è caratterizzato da una situazione di disoccupazione diffusa, da un sistema sanitario inefficiente e da una condizione di povertà che caratterizza la vita di moltissime persone. La tdf è un’espressione che indica un singolo gesto criminale ma contemporaneamente abbraccia le mutevoli manifestazioni della devastazione ambientale nel territorio campano, come la presenza di grandi siti industriali abbandonati – a testimoniare il naufragio dei tentativi di modernizzare il Sud del paese – oppure l’aumento del numero delle discariche e degli inceneritori.

Inizialmente, la straordinarietà di cui è stata ricoperta la crisi dei rifiuti campana ha avuto l’effetto di depoliticizzare la situazione e rimuovere le responsabilità statali sia dal lato dell’intervento sia da quello dell’inazione. La presenza di uno stato di emergenza può costituire un’occasione per le autorità di rafforzare il proprio controllo su di una determinata area, perché la presunta eccezionalità degli eventi consente di invocare un potere straordinario che oltrepassa i confini stabiliti dalle norme condivise: l’invocazione della presenza di un pericolo per la sicurezza pubblica o per l’incolumità dei cittadini diventa così un modo per esercitare un controllo più rigido.

D’altra parte, quando l’emergenza diventa ordinaria e si trasforma in una parte dell’esistenza quotidiana, i cittadini possono iniziare a mostrare insofferenza verso le restrizioni compiute ai danni delle loro libertà fondamentali. Per tale ragione, oltre alle forme più tradizionali di associazionismo, nel 2013 si è assistito alla nascita di un sistema di monitoraggio del territorio da parte degli abitanti della provincia di Caserta tramite l’istituzione di un “servizio intercomunale di avvistamento dei fenomeni illeciti di combustione”. La diffusione di questi gruppi di «cacciatori di roghi» (Ivi p. 198) ha costituito uno strumento per denunciare gli spostamenti sospetti di veicoli e per immortalare gli incendi attraverso il ricorso a fotocamere o cellulari: l’utilizzo di questi supporti digitali ha consentito di diffondere tramite internet le prove audio-visive del disastro ecologico che si stava consumando sul territorio campano, rendendolo visibile a livello nazionale.

Di fronte a queste forme di aggregazione dal basso, la strategia impiegata da parte delle istituzioni statali per contrastare la crisi dei rifiuti si è di fatto limitata alla costruzione di nuove discariche e inceneritori e alla riapertura degli spazi di raccolta precedentemente chiusi: questa scelta ha avuto come effetto collaterale quello di mantenere bassa la percentuale dei materiali di scarto riciclati a livello regionale (Armiero M., D’Alisa G. 2012). Vi è una contraddizione alla base di questa supposta emergenza dei rifiuti ed essa risiede nella sua temporalità diluita nel corso di molti anni, la quale ha determinato uno stato di sospensione che ha reso inutili e dannose le soluzioni fondate sull’apertura di siti momentanei in cui spostare le grandi masse di rifiuti. La presunta temporaneità è stata colta come occasione per non preparare adeguatamente le aree da convertire in discarica, portando all’abbandono di grandi quantità di materiali con un’origine e una composizione variabile. La rapida diffusione di questi spazi ha allarmato la popolazione delle aree limitrofe per il timore di ritrovarsi in breve tempo circondati dai rifiuti: la loro attenzione, a differenza di quella delle autorità politiche, si è ampliata fino estendersi anche alle modalità di produzione degli scarti domestici e industriali, anziché limitarsi alle pratiche di smaltimento.

Quello che si può concludere, è che il caso campano può essere meglio compreso se si interpreta non come un esempio di emergenza rifiuti dal punto di vista del loro trattamento ma come una «crisi della democrazia» (Ivi p. 58), cioè come l’esito di un modello politico che ha sistematicamente ignorato le rappresentazioni, i discorsi e le pratiche delle comunità direttamente interessate.

La messa in dubbio e le esitazioni nell’individuare le cause della crescita dei casi di malattie respiratorie e oncologiche all’interno delle aree più contaminate ha avuto l’effetto di delegittimare la sofferenza privata dei cittadini, così da impedire loro di comprendere le ragioni del loro male: sono stati proprio i malati e i loro familiari i primi a collegare le trasformazioni patologiche del corpo con i cambiamenti altrettanto dannosi avvenuti nell’ambiente. La possibilità di un simile stato di sospensione può essere spiegata nel seguente modo:

«È noto che non vi sia una sola causa del cancro polmonare o dell’infarto, e che non tutti coloro che sono esposti a un fattore di rischio (come il fumo) sono destinati a contrarre questa malattia. (…) Il carattere non necessario del nesso causale è indicato non solo dal fatto che ad esempio il cancro può insorgere nei non fumatori (…), ma dall’esistenza di molte altre cause (…). Oggi si parla di causazione multipla, o di rete di causazione, per intendere che diverse esposizioni sono in grado, separatamente o con il concorso di più d’una, di provocare una malattia (…). I criteri di riconoscimento della relazione causa-effetto in medicina si sono dunque complicati e indeboliti (…)» (Ligi G. 2009 p. 144).

Una visione simile è stata quella proposta da Merril Singer con la teoria sindemica, la quale ipotizza la natura biosociale della salute e la possibilità che si verifichino delle interazioni tra diversi tipi di malattie e di condizioni socio-economiche e ambientali (Herring A. et al. 2011). Questa prospettiva complica il tentativo di ricostruire i rapporti di causa-effetto: nel caso della tdf, le condizioni di povertà della popolazione e la carenza di infrastrutture del servizio sanitario pubblico hanno aggravato i processi patologici dei cittadini, dimostrando il ruolo negativo che le condizioni sociali possono avere nella manifestazione e nel decorso di una patologia3.

D’altra parte, si è assistito allo sforzo di silenziare i problemi strutturali della regione e il disastro ambientale4 a cui è stata, ed è tuttora, sottoposta, incolpando direttamente gli abitanti per i loro stili di vita. Questi ultimi sono stati considerati la prima causa delle loro condizioni mediche in peggioramento (Armiero M., Iengo I. 2017), nonché della crisi stessa dei rifiuti:

«Nei salotti televisivi si parlò (…) dell’inadeguatezza genetica dei cittadini napoletani a fare la raccolta differenziata, della loro “naturale” incapacità a gestire le regole, dell’inciviltà dei napoletani…Eppure la gente per strada chiedeva a gran voce la raccolta porta a porta, la riduzione. Eppure, nei presidi fuori le discariche la gente si riuniva e si interrogava su cosa stesse succedendo; gente, anche, cui erano dati limitati strumenti di conoscenza, studiava da sé e cercava di capire i motivi di quel disastro e di come porvi rimedio» (Armiero M. 2014 p. 83).

All’interno di questa contrapposizione tra cittadinanza e istituzioni pubbliche si può verificare una duplice dinamica positiva e negativa a partire dai rifiuti: essi possono creare relazioni sociali e rafforzare il senso di appartenenza alla propria comunità, portando anche alla riscoperta di un legame con il proprio territorio. Al contrario, i rifiuti possono distruggere le forme di solidarietà e fiducia, innescando delle scissioni interne: tali divisioni diventano comprensibili se si considerano le forme di conflittualità più o meno latenti a livello locale, le quali sono causate dall’esistenza di interessi contrastanti tra i diversi attori coinvolti.

In secondo luogo, la reazione generata dalla rivelazione delle ragioni che hanno portato i prodotti del post-consumo a circolare e accumularsi nel territorio campano può rappresentare l’anticamera di una sorta di risveglio, il quale permette una presa di coscienza e di conoscenza che rende nuovamente visibili i rifiuti, anche quelli che sono stati occultati. D’altra parte, le persone possono rischiare di abituarsi a tali situazioni di degrado ambientale, anche a causa del loro sviluppo lento e graduale, così da continuare a muoversi nello spazio urbano noncuranti degli scarti solidi sugli angoli delle strade e delle nubi nere che salgono in cielo: in questo modo, si assiste a una scissione all’interno della popolazione tra chi sceglie di protestare e chi continua a condurre la propria vita5.

Nel caso si inneschi un processo di contestazione, esso prende forma dalla scoperta di situazioni locali di contaminazione ambientale, mentre col passare del tempo la portata delle rivendicazioni tende a espandersi, trasformandosi in una rete di alleanze che hanno la potenzialità di arrivare a raggiungere una portata transnazionale. In questo modo, esse assumono un carattere condivisibile anche da chi abita in altri luoghi oppure da persone che rivestono altri ruoli, come ad esempio gli scienziati o gli esponenti politici. Se le comunità più marginali ed economicamente povere sono state designate come le prescelte per la costruzione di discariche e inceneritori, è proprio a partire da esse che è possibile riconoscere nel movimento ambientalista una connessione tra istanze di tutela del territorio e delle persone che lo abitano: esistono una pluralità di prospettive legittime promosse dai diversi attori coinvolti, quindi osservare i conflitti ambientali non dal punto di vista dello Stato (Scott J. 1998) ma da quello dei movimenti di protesta (Armiero M. 2008) può arricchire la loro comprensione.

Per quanto riguarda il ruolo dell’antropologo all’interno di questi contesti, la sua capacità di riportare in primo piano le voci, i corpi e le malattie dei propri interlocutori può diventare un modo per restituire, almeno in parte, una dimensione corale, o meglio, l’intreccio delle diverse forme dialogiche raccolte durante le interviste e riportate all’interno del testo che contiene i risultati del lavoro di ricerca. L’ambiente non costituisce un semplice sfondo delle lotte sociali, poiché qualsiasi tentativo di comprendere una società deve riconoscere il valore del contesto ecologico in cui essa è inserita. Le storie costruite a partire dall’esperienza vissuta dai corpi non devono essere concepite in contrasto con le ricerche e gli studi promossi dagli scienziati ambientali ma in un rapporto di complementarietà, così da unire una forma di conoscenza incorporata con un’altra di carattere più astratto, la quale consente di rilevare anche quei rifiuti – come la diossina e la CO2 – che rischierebbero di restare invisibili, poiché certe forme di inquinamento atmosferico sono amorfe, mobili e non rilevabili dai sensi.

Uno dei maggiori problemi riguardo all’anidride carbonica è che la vita sociale del carbonio ha una portata difficilmente comprensibile in modo diretto, perché traccia nuove connessioni a livello planetario, che mettono in contatto specie viventi, sostanze organiche e inorganiche e riserve di energia immagazzinate nella superficie terrestre. La rinnovata centralità dell’anidride carbonica a livello pubblico porta a riscoprire l’atmosfera come locus fondamentale per la vita umana: essa non è uno spazio vuoto contrapposto alla densità fisica della materia in forma solida e liquida, bensì un’area ricca a livello simbolico e centrale per comprendere le dinamiche in corso. È proprio la non visibilità dell’involucro gassoso e delle componenti da cui è formato a rendere difficile attribuire all’anidride carbonica il valore di rifiuto al pari di quelli percepibili dai sensi, nonostante l’atmosfera sia diventata una discarica al cui interno circolano i gas climalteranti.

A seconda del contesto, il carbonio può essere inteso come elemento chimico, come rifiuto pericoloso generato dai processi umani oppure come merce neutra sottoposta alle regole del mercato internazionale (Gunel G. 2016). Ciò permette di capire che non è il carbonio in sé a costituire una minaccia, piuttosto è il suo aumento ad aver determinato uno squilibrio che genera degli effetti a catena ben oltre le capacità immaginative e di controllo degli scienziati. Per questa ragione, la decarbonizzazione economica ha un potenziale rivoluzionario a livello storico (Howe C., Pandian A. 2020), perché essa comprende anche la necessità di mettere in dubbio l’immaginario sociale e di crescita senza fine che ha sostenuto e giustificato le emissioni di gas climalteranti (Van Aken M. 2020), contribuendo per molto tempo a minimizzare il ruolo di queste ultime nel determinare l’attuale accelerazione dei cambiamenti ambientali.

A tal proposito, le risorse presenti nell’ambiente possono essere considerate un bene comune, intendendo per comune ciò che si abita sia come corpo biologico sia come soggetto politico e sociale: questo comprende non solo la terra ma anche lo strato atmosferico soprastante, così da generare l’esigenza di rivendicare un diritto universale al respiro e a una casa atmosferica che non danneggi troppo la vivibilità. Al contempo, è bene ricordare che le minacce riguardanti la salubrità dell’aria provenienti dagli inquinanti mostrano delle differenze rispetto alle emissioni di CO2 che sono alla base della crisi climatica attuale. L’anidride carbonica opera secondo scale spaziali e temporali che si discostano dalla nostra quotidianità in modo ancora più marcato rispetto alle polveri sottili presenti nelle città. In aggiunta, le polveri sottili e la diossina si depositano nei polmoni e interferiscono anche con gli altri sistemi organici, fino a tornare ad accumularsi sulla superficie terrestre. La CO2, invece, resta nell’atmosfera con una temporalità molto più diluita che non riusciamo ancora a riconoscere, anche per la mancanza a livello sociale di «sistemi di significato condivisi» (Ivi p. 93) con i quali leggere la rete di interdipendenze che lega gli esseri umani agli altri soggetti ambientali.

In moltissime aree del mondo il diritto a una casa atmosferica che favorisca la vita anziché minacciarla è da più parti violato o messo in pericolo: l’atto di respirare può sembrare tanto generico e astratto, quanto sono specifici e storicamente situati le idee e i comportamenti che minacciano il manifestarsi di un progressivo soffocamento, ad esempio nel caso dei roghi tossici nella tdf. Ogni lotta contro le ingiustizie ambientali è, in ultima istanza, una battaglia per rivendicare il dovere da parte delle istituzioni nazionali e internazionali di garantire a tutti un ambiente salubre, cioè un’aria non inquinata dai rifiuti di un’economia incentrata sul carbonio.

Il rapporto tra l’atto di abitare e quello di respirare si fonda sul riconoscimento del fatto che il primo implica la scelta di non pensare all’ambiente come uno spazio di cui appropriarsi ma come un luogo con cui entrare in relazione e all’interno del quale stabilire dei legami con gli altri esseri viventi e non viventi: questo tema appare tanto più rilevante in un momento – come quello attuale –  in cui l’intero pianeta è paralizzato dall’azione di un virus che si diffonde principalmente per via aerea. Per tale ragione, se non possiamo più sperare di ripristinare le condizioni climatiche e ambientali del passato, quello che possiamo fare concretamente è imparare ad abitare questo nuovo tempo presente, con tutti i detriti generati dalla modernità che esso porta con sé. I rifiuti sono sia il punto finale di un sistema produttivo sia l’inizio di una nuova serie di processi di trasformazione: essi possono costituirsi come supporti simbolici per le comunità che con essi entrano involontariamente a contatto, come nel caso campano. L’ambivalenza degli scarti risiede proprio nell’essere allo stesso tempo segni di vita (Reno J. 2014) e minacce di morte ma, in entrambi i casi, essi rappresentano degli elementi che ogni gruppo sociale deve imparare a riconoscere.

Ph. János Chialá  | Terzigno, 2010


Note

(1) La prima ricorrenza di questa espressione è riconducibile al rapporto sulle “ecomafie” redatto da Legambiente nel 2003, mentre la sua popolarità deriva anche dal suo impiego nel romanzo Gomorra di Roberto Saviano del 2006.

(2) Dal punto di vista dello Stato, l’emergenza ambientale ha riguardato la saturazione delle discariche e l’invasione dei rifiuti nei centri abitati, quindi l’attenzione è stata posta solo sul lato visibile della loro cattiva gestione con l’obiettivo di ripulire le strade dai rifiuti, mentre il fenomeno dei traffici illeciti dei materiali di scarto pericolosi è passato in secondo piano.

(3) Si è parlato di “triangolo della morte” per indicare una zona compresa tra Acerra, Nola e Marigliano in cui è stato attestato un aumento della mortalità dovuta a patologie di carattere oncologico, il quale è stato ricondotto alla presenza in quel territorio di rifiuti tossici smaltiti illegalmente.

(4) Quello che è possibile rilevare è la necessità di integrare gli schemi interpretativi più tradizionali con nuove categorie in grado di cogliere la dimensione inedita dei fenomeni a cui assistiamo oggi: ad esempio, il concetto di “biocidio” (Armiero M. 2015)  o quello di “ecocidio” (Barca S. 2014) consentono di mettere in primo piano la distruzione parziale o completa di interi ecosistemi che ha delle ricadute su tutti gli esseri viventi che lo popolano, uomo compreso.

(5) A tal proposito, Carlotta Caputo ha parlato di processi di “scotomizzazione” per indicare dei fenomeni inconsci di occultamento di certi elementi della realtà che risultano troppo spiacevoli e potenzialmente generatori di angoscia (Armiero M. 2014). Questo aspetto appare molto rilevante per quanto riguarda la percezione dei rischi delle contaminazioni ambientali e le azioni che sono dispiegate per minimizzarli e occultarli.

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