La via lunare di Descola: natura, cultura e l’occidente

Quando pensiamo come collettivo all’opera di Philippe Descola ‘Oltre Natura e Cultura’, da poco ritradotta e pubblicata da Raffello Cortina, veniamo catapultati immediatamente all’inizio delle nostre esperienze di campo, che alcune e alcuni di noi hanno condotto in Puglia, più precisamente in Salento, dove gli ulivi seccavano mese dopo mese.

Era su un piano sufficientemente generico, perciò in verità estremamente complesso e rilevante, che ‘Oltre Natura e Cultura’ ci accompagnava in continuazione: come è stata organizzata la vita e le relazioni interspecie qui in Salento? Cosa è successo al rapporto tra Natura e Cultura, se ora tutto crolla? Con gli olivi, se ne andavano gravosamente lavoro, olio, saperi, comunità, autoproduzioni e salute. E del crollo della Natura, sin dall’inizio, avevamo il sospetto che fosse responsabile la Cultura. 

Si intuisce, la lezione fondamentale che vede sicuramente in Descola uno dei massimi esponenti, ossia che l’opposizione tra Natura e Cultura non sia universale e che possa anche non avere un gran senso, l’avremmo dimostrata pian piano con la ricerca. Le delucidazioni storiche andarono a confermare ciò che con l’etnografia e l’osservazione sul campo potevamo constatare: le politiche della natura avevano trasformato la ‘cultura salentina’ seguendo una sempre più invasiva pianificazione (o ritenuta tale) economica. Dalla fine del ‘700 fino al capitalismo agrario vero e proprio, Natura e Cultura si erano mischiate e separate infinite volte. Ciò che speravamo di trovare, e che senza dubbio infatti c’è, era qualcosa nelle giravolte, nei punti di incontro e di amalgamazione in cui Natura e Cultura si toccavano. Noccioli duri o sabbie malleabili in cui il linguaggio natural-culturale si rinnovava e si difendeva dagli attacchi dominanti non tanto della speculazione capitalista, ma dei suoi effetti distruttivi e tentacolari sui territori.

Descola può esser visto come un autore che in Oltre Natura e Cultura non necessariamente ponga questioni marxiste o anti-capitaliste di sorta. Questo perchè ponendo riflessioni di tipo epistemologico, la critica cerca di giungere a minare generalizzazioni assertive, sostituendole con altre di tipo metodologico. Così le famose quattro ontologie con cui Descola cerca di costruire e raccogliere i punti di vista (e qualcosa in più) con cui le comunità umane guardano al mondo, assurgono al ruolo trasformativo di metodi. Modelli eurustici, l’animismo e il naturalismo, che riescono ad unire una metodologia (generale) a qualcosa non solo di estremamente particolare, ma anche tangibile: la forma di relazione tra umani e mondo. 

La critica al capitalismo, dunque, è inscritta nel nuovo approccio epistemico che denuncia, un po’ a là Latour, la forma di dominazione della natura storicamente propria dell’occidente, che ha dato vita all’ontologia che Descola chiama ‘naturalista’. E’ una critica innanzitutto epistemologica, e tanto a noi di epidemia bastava per considerare Descola e le teorie alter-ontologiche degli alleati essenziali per raccontare o descrivere i campi di ricerca. In particolare, il discorso di Descola era ed è molto legato alla questione della percettibilità, della percezione, anche se non in senso fenomenologico. Parlare di percezione rispetto a ciò che ci circonda era ed è tuttora un punto politico su cui le comunità umane, qui, in Europa ed altrove, costruiscono e danno forma alle proprie azioni nei confronti dei non-umani.

In Salento, non ci siamo potuti in alcun modo occupare di natura in maniera univoca. La natura è cultura, e per questo è anche scienza. Ma allora come parlare dei modi di identificazione, che per Descola descrivono i presupposti delle relazioni? Come lo scienziato del CNR di Bari identifica l’ulivo nel pieno del disseccamento, rispetto ad un agricoltore a cui viene a mancare la terra sotto i piedi, o persino rispetto ad un altra categoria di scienziato? E quale relazione costruiscono con l’ulivo a partire da ciò? E quale relazione costruiscono (nel senso però di creazione dimondi, non solo constructionism) con tutti i non umani, batteri, insetti, umani stessi?  Anche all’interno di una stessa cosmologia, i modi di identificazione e le conseguenti ontologie potevano divergere, dando vita a realtà e soprattutto ad azioni differenti. Traducendo approssimativamente quanto spiegato da Descola in occasione dell’ultimo grande convegno a lui dedicato all’Università di Firenze, curato da Nadia Breda e partecipato da innumerevoli voci ispirate da Oltre Natura e Cultura: 

Se volessimo rischiare un’analogia con la scienza politica contemporanea per fare la differenza tra ontologia, cosmologia e modo di identificazione: 

  • il modo di identificazione sarebbe quello che semplicemente dà la forma generale di governo (monarchia, democrazia, aristocrazia, eccetera);
  • L’ontologia è il tipo di costituzione che presiede in ognuno di questi regimi: l’equilibrio dei poteri, la natura delle assemblee, la forma di rappresentanza);
  • La cosmologia corrisponde e all’insieme dei testi di leggi e del regolamento che ordinano la vita in comune 

Quindi sono livelli di analisi che sono diversi ecco perché non è necessario usare lo stesso livello . Spesso ho visto confusi, modo di identificazione, ontologia e cosmologia.

Questo genere di discorso ci ha permesso di immaginare prima, e di tentare di storicizzare poi, realtà fatte di popolazioni differenti. Se per l’istituzione deputata al contenimento del batterio Xylella, il batterio stesso era tutto ciò che importava, mettendo in secondo piano eventuali rischi per la salute umana nel lottare chimicamente – e non solo- contro il microorganismo, eventuali ulteriori criticità ambientali che avrebbero beneficiato di interventi differenti, invece per i ‘movimenti’ a difesa degli ulivi le cose stavano diversamente. I movimenti si sono fatti portavoce di una politica ontologica di stampo ecologista, interrelazionale. Questo ha significato, senza tanti giri di parole, andare contro ciò che la scienza affermava (questo ha significato anche creare una nuova patologia, nuova nelle sue epistemologie e politiche, che in ultima istanza è creare una nuova ontologia della patologia, direbbe Anna Maria Mol). La questione di diversi mondi epistemici, dunque, si è delineata come immediatamente politica: da un lato il successo della tecnica, dall’altro la percezione di un sistema troppo complesso perchè la scienza e le istituzioni potessero governarlo, o forse anche capirlo. Come, nello stesso convegno sopracitato, ha notato Luigi Pellizzoni, Descola riesce a far porre la giusta domanda, a chi fa ricerca sul campo: è possibile pensare la natura senza colonialità? Ossia: è’ possibile farlo senza colonizzarla e senza buttare a mare la scienza? Questa è la sfida che si pone con veemenza oggi, con importanti ripercussioni per il domani. 

C’è, secondo Pellizzoni, una via lunare (1) che possiamo seguire, con Adorno e Benjamin. E’ una via che ci consente non di rifiutare il mondo occidentale, di etichettare il naturalismo come il male assoluto, ma invece di operare critiche per capire cose non va bene nel punto di vista dominante. La via lunare è la via alternativa, forse di mezzo, allo sguardo da nessun luogo (oggettivo) o da un solo luogo (oggettivo ugualmente). In questo Descola può far pensare molto: come decolonizzare l’eurocentrismo, che è indubbiamente un antropo(ego)centrismo. 

 (1) ‘’La luce che piove dalla luna non appartiene al versante diurno del nostro esistere.Lo spazio che essa dubbiosamente rischiara sembra essere quello di una terra rivale o di una terra vicina. Non più quella terra che la luna insegue come satellite, ma essa stessa trasformata in un vassallo della luna.’’ in Walter Benjamin, Infanzia berlinese, Einaudi, Torino 1973, pp. 118-121

Come ricordato da Annamaria Rivera nel suddetto convegno del 30 aprile, che riprende Adorno del 1951 in Minima Moralia, «Quella che i borghesi – nel loro accecamento ideologico – chiamano natura, non è che la cicatrice di una mutilazione sociale». I tentativi di ri-pensare la natura ci hanno fatto affacciare alle ben note nozioni di ‘specie compagne’, di ‘animali-sciamani’, di ‘umani sotto forma di animali’: insomma, abbiamo provato a ripensare innanzitutto le relazioni interspecie. Contemporaneamente, si è fatta spazio l’idea, in sostanza, che ‘l’alterità di trovasse anche nelle nostre culture’, per dirla con Nadia Breda, e che potessimo ‘de-esotizzare le ontologie descoliane’, non appartenenti solo a contesti amazzonici o lontani da noi. In qualche modo, riprendendo dei termini che traiamo da un recente dibattito, sembra che ci siano stati dei tentativi di riprendersi ciò che il naturalismo aveva tolto all’occidente, facendoci precipitare in una sorta di ‘solitudine di specie’: un rapporto spirituale con il non-umano. 

Per l’antropologia, cercando di superare la solitudine di specie, un rischio si è profilato all’orizzonte: quello di adoperare indebite ‘’trasfusioni di immaginario’’ da ‘lì’  a ‘qui’, per far parlare le nostre foreste e i nostri animali. Un rischio che Matteo Meschiari non ha mancato di evocare come legato alla storia dell’antropologia. La prima ragione è, si potrebbe dire perchè nell’articolo non è esplicitato, il furto eurocentrico di narrazioni dell’altro che possono essere più di moda che altro, qualcosa che non ha nulla a che vedere con il ‘prendere ispirazione’ dall’incontro e dalla conoscenza con l’altro. La seconda ragione di questo rischio è che le e gli antropologi possano divenire, come in passato, preda delle emozioni sia proprie che degli altri, e che il suo richiamo a immaginari esogeni possa dunque risultare del tutto pretestuoso e dannoso per la disciplina, anche in quanto irrazionale. 

In qualche modo, Meschiari sembra metterci in guardia sul cercare di riprodurre tale e quale l’altrove, o meglio il rapporto con l’altro che l’altrove ha posto in essere. In tante possiamo sentirci toccati da questa doccia gelata: come recita il titolo dell’articolo, le foreste non parlano (qui). Eppure, da giovani ricercatori e ricercatrici, se pensiamo a come Oltre Natura e Cultura ci abbia portato, insieme indubbiamente ad altri grandi lavori come quelli di Viveiros De Castro, Kohn, o alla sopra citata Donna Haraway, a pensare che invece era possibile, il mondo poteva essere abitato da non solo animali ed alberi parlanti, ma anche spiriti. E non dipendeva tanto da dove ci si trovava, in quale società, ma dalla propria soggettività sviluppatasi in relazione alla natura che ci circonda. Forse il senso di questa critica, può essere digerito ed addolcito se seguiamo le parole proprio di Donna Haraway:

Non parlo di persone come me, o di ragazzini come Nuna, che «credono» nel mondo degli spiriti. La fede non è una categoria indigena, né tantomeno una categoria dello Cthulucene. Inesorabilmente impantanata nelle dispute interne e coloniali della Cristianità, comprese le sue forme scolastiche, civiche e laiche, la fede è legata alla dottrina, alla professione, alla confessione e ad alcune tassonomie di errori. Vale a dire: credere non è sensato. Io invece parlo di semiotica materiale, di pratiche di mondeggiamento, di una simpoiesi che non è solo simbiogenica, ma è anche sempre un materialismo sensato.

Passi di: Donna Haraway. “Chthulucene”. 

Non è una questione di fede o di credere, ma di segni. E su questo Descola sarebbe pienamente d’accordo. Ma forse è doveroso tenere a mente i suggerimenti di Haraway, di affidarsi anche al ‘materialismo simanimagetico’ (essenzialmente connettivo e affettivo), ossia a quella parte emotiva, credo, che è necessaria per imparare a giocare, e quindi a creare nuovi mondi. Ancora, tuttavia, Haraway sembra moderare l’entusiasmo: 

L’animismo non può essere indossato dai visitatori come se fosse un mantello magico. Generare parentele nello Chthulucene che esiste e progredisce sarà un po’ più difficile, e per quanto gli eredi dei colonizzatori siano riluttanti a riconoscersi nell’ottica della prevaricazione, di sicuro non sono i candidati migliori per stabilire come si riconosce una parentela.

Passi di: Donna Haraway. “Chthulucene”.

Per questo lo sforzo di Descola di produrre metodi e modelli non eurocentrici deve necessariamente confrontarsi con le esperienze trasformative dei popoli che più di altri subiscono le conseguenze dei processi di colonizzazione e di depauperamento. Tra l’entanglement di Ingold e l’analogismo di Descola, l’intreccio vivente tra le creature che popolano i nostri mondi si sposta e muove il nostro immaginario. Si va dagli approfondimenti tecno-scientifici sul funzionamento di micro-eco-sistemi alle meraviglie suscitate dalla casualità magica e viceversa: quale materialismo animista sta producendo l’antropologia di oggi? Quale sarà il rapporto tra mondi semiotici, materia e fede? 

In queste ultime domande risiede uno dei motivi per cui Descola è rilevante: il suo sistema ci consentirà di capire quale tipo di relazione stiamo creando, quale tipo di interazioni stiamo producendo se esse siano il frutto, o meno, di una liberazione degli schemi collettivi che soggettivano l’esperienza. In questo senso, quale che sia la risposta, ci sentiamo di condividere come domanda queste poche righe dall’epilogo di Oltre Natura e Cultura:

Stringere un rapporto di scambio con la natura, o per meno con alcuni dei suoi rappresentati, ecco uno dei sogni più antichi e più inaccessibili di coloro che sono stati delusi dal naturalismo: le strane varietà di Naturphilosophie che fiorirono nel XXI secolo, l’estetica romantica, l’attuale successo dei movimenti neo sciamanici e dell’esoterismo New Age, la moda cinematografica dei cyborg e delle macchine desideranti, tutte queste reazioni alle conseguenze morali del dualismo, testimoniano questo desiderio di ritrovare l’innocenza perduta di un mondo dove piante, animali e oggetti erano i nostri concittadini.

 

A partire dalla risposta a questa riflessione, e dalle precisazioni da fare sulla sua formulazione, si basa la maggior parte di ciò che importa per il futuro delle nostre comunità.

Foto di: Janòs Chialà ©